Cassazione Penale, sentenza 9 dicembre 2014, n. 51096
La giurisprudenza sul punto è rigorosa, richiedendo che l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a mezzo stampa, in mancanza di indicazione specifica e nominativa ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita (Sez. 5, sentenza n. 2135 del 07/12/1999 Rv. 215476; massime precedenti conformi: N. 6507 del 1978 Rv. 139108, N. 8120 del 1992 Rv. 191312, N. 10307 del 1993 Rv. 195555, N. 18249 del 2008 Rv. 239831). Nei caso di specie risulta documentalmente e non è contestato che il ricorrente non abbia menzionato nell’intervista giornalistica il Comandante dei corpo della Polizia Municipale di ….... e il responsabile dei servizio di verbalizzazione del medesimo corpo di Polizia Municipale, tanto meno ha individuato un qualche politico o funzionario comunale, limitandosi a rilevare che l’elemento anomalo, costituito dal numero dei ricorsi accolti per ritardi nella procedura di notifica della contestazione o per difetto di controdeduzioni, pari a circa il 70%, non poteva essere casuale, facendo da ciò discendere che si trattava di errori “voluti dall’alto”. L’accoglimento del 70% dei ricorsi relativi alle sanzioni amministrative rappresentava, come riconosciuto anche dal giudice di secondo grado, un dato oggettivamente abnorme e non contestato dalle persone offese, che non poteva essere attribuito al caso; pertanto, il ricorrente ne individuava la ragione nell’insipienza di coloro che avevano la responsabilità politica e amministrativa dei servizi comunali e che, evidentemente, per lungo tempo non avevano adottato gli opportuni accorgimenti organizzativi. La censura contenuta nell’articolo in oggetto appare, sotto il profilo dell’individuazione dei responsabili delle disfunzioni, assolutamente generica lontana dai presupposti di “affidabile certezza” richiesti dalla giurisprudenza, in quanto priva di indicazione nominativa, sia riguardo ai singoli responsabili, sia agli enti o alle strutture specificamente preposte, per il tramite dei rispettivi funzionari, dirigenti o politici, all’istruzione e definizione delle pratiche in oggetto.
Cassazione Penale, sentenza 9 dicembre 2014, n. 51096
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INVESTIGAZIONI PRIVATE - PEDINARE LA MOGLIE DEL FRATELLO NON COMPORTA UN ESERCIZIO ABUSIVO.12/16/2014 Secondo giurisprudenza assolutamente consolidata, ciò che caratterizza l’attività di vigilanza o custodia (di proprietà mobiliari od immobiliari) e di investigazioni, ricerche o raccolta di informazioni per conto di privati, di cui tratta l’art. 134 r.d. n. 733 del 1931 (T.U.LP.S.), è che detta attività sia svolta, per conto terzi, in forma professionale. Come rimarcato da Sez. 3, n. 42204 del 17/12/2002, Montelli, Rv 223600, richiamando altresì quanto concordemente affermato dal Consiglio di Stato, sia in sede consultiva sia in sede giurisdizionale, “la sottoposizione a controllo amministrativo dell’attività di vigilanza e custodia, svolta in forma imprenditoriale, è qualificata dal fatto che essa è suscettibile di interferire con la funzione di polizia, in quanto costituente attività integrativa di essa”. La subordinazione dell’attività di vigilanza al rilascio dell’autorizzazione prefettizia dipende, quindi, “dal pericolo di compromissione della sicurezza pubblica e della libertà dei cittadini, pericolo che può derivare anche dall’attività – integrativa – diretta alla segnalazione dei reati contro il patrimonio mobiliare o immobiliare e non solo dall’esercizio di attività professionali svolte con l’impiego di armi”. Tanto ineludibilmente postula, perciò, da un lato che essa sia svolta in forma professionale, o imprenditoriale che dir si voglia (e non sembra doversi qui ricordare che l’impresa può essere anche individuale); dall’altro che sia rivolta alla protezione o al soddisfacimento di interessi di un numero indeterminabile a priori di “terzi”, giacché solo la potenziale diffusione della attività e il generico coinvolgimento di qualsivoglia terzo consente di ritenere configurabile quell’astratto pericolo per la “pubblica sicurezza” che integra l’oggettività giuridica della violazione sanzionata ai sensi, appunto, del “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” (nello stesso senso, segnalando che deve comunque trattarsi di “attività imprenditoriale di vigilanza e custodia di beni per conto di terzi”, Sez. 3, Sentenza n. 1605 del 16/12/2009 Provvidenti, Rv. 245868). È dunque la natura stessa del complesso normativo in cui le disposizioni incriminatrici sono inserite, che esclude che possano essere ricondotte a tale ambito comportamenti di controllo e ricerca di informazioni svolte da un privato nel suo particolare interesse e nei confronti di una singola persona, come è avvenuto nel caso di specie: di marito che, facendosi aiutare da un affine, ha controllato per un certo periodo la moglie, e solo lei. Cassazione n. 48264/2014. Riportiamo le precisazioni del Garante della Privacy, che riguardano la riservatezza dei dati sensibili riportati nelle diagnosi, prescrizioni mediche , e qualsivoglia atto medico. Il Garante, infatti, ha voluto meglio precisare, con missiva inviata direttamente al Presidente della federazione Italiana dei medici (Fimmg) , che le ricette, i referti medici e quant’ altro riguardi le informazioni sanitarie del paziente, sia che esse vengano consegnate in farmacia, che nelle sale d’attesa degli studi medici, devono giacere all'interno di una busta chiusa. All'interno di una busta chiusa, il medico può inviare le ricette direttamente alla farmacia, senza che vi sia la necessità di doverle consegnare direttamente all’ interessato. La persona che ritira la documentazione sanitaria, per conto dell’interessato, deve essere comunque provvisto di delega.
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